Oggetti e consuetudini – Museo Laboratorio della Civiltà Contadina di Matera https://museolaboratorio.it Sito ufficiale del museo etno-antropologico dei Sassi di Matera Thu, 31 May 2018 09:32:48 +0000 it-IT hourly 1 https://museolaboratorio.it/data/uploads/cropped-icon_new-100x100.jpg Oggetti e consuetudini – Museo Laboratorio della Civiltà Contadina di Matera https://museolaboratorio.it 32 32 Il riciclo ed il riuso nel passato https://museolaboratorio.it/post/il-riciclo-ed-il-riuso-nel-passato/ https://museolaboratorio.it/post/il-riciclo-ed-il-riuso-nel-passato/#respond Sat, 03 Mar 2018 12:16:11 +0000 https://museolaboratorio.it/?p=4018 Le pratiche del riciclo e del riuso, prepotentemente tornate alla nostra attenzione negli ultimi anni, erano alla base delle attività domestiche e produttive del passato.

Oggi sono giustificate dal problema enorme dello smaltimento dei rifiuti, mentre in tempi ormai lontani avevano motivazioni di tipo economico, in quanto consentivano di evitare l’acquisto di ulteriori materie prime necessarie per produrre nuovi oggetti.

Nel mondo agricolo-pastorale e nell’ambito della produzione artigianale ad esso strettamente connesso, nonché nelle consuetudini della vita quotidiana, si avvertiva fortemente la dipendenza della vita umana dall’equilibrio delle forze naturali: ciò portava gli uomini a rapportarsi con l’ambiente circostante in modo più rispettoso, evitando lo sfruttamento dissennato delle risorse naturali, seguendo l’istinto, più che per una consapevole cultura ecologica. I nostri antenati, forse, più di noi si sentivano parte di un gigantesco ecosistema e rifuggivano quella filosofia antropocentrica che, in concomitanza con il consumismo e con il concetto dell’ “usa e getta” che ne costituisce il fondamento, ha determinato lo sfacelo ambientale con il quale oggi ci ritroviamo a fare i conti.

Il riciclo era costantemente presente, per esempio, nelle attività edili: i muratori ricavavano tufina, brecciolina e ghiaia dai residui delle demolizioni di vecchie murature, attraverso un paziente lavoro di frantumazione e selezione di pietrisco di varie dimensioni reso possibile dall’uso di mazzuole e setacci con griglie di diverso calibro.

I cocci di terracotta dei manufatti che i conciapiatti non avrebbero più potuto riparare venivano ulteriormente schiacciati, ridotti in polvere ed utilizzati, con la malta fine a base di calce aerea, per produrre il cocciopesto, un intonaco usato come rivestimento impermeabile per pavimenti e cisterne.

Anche i falegnami non disdegnavano di produrre nuovi manufatti assemblando elementi ancora in buono stato di vecchi mobili demoliti perché danneggiati in alcune parti della loro struttura: in fase di restauro si verifica spesso, nel medesimo arredo, la presenza di elementi di legni diversi opportunamente modificati e adattati alla nuova funzione.

Nelle legatorie non si esitava a utilizzare fogli di pergamena, residui di antichi libri anche manoscritti, per rinforzare le copertine delle nuove pubblicazioni: la necessità del recupero prevaleva su quella di un potenziale restauro.

È il campo del riuso, comunque, quello che riserva maggiori sorprese ed evidenzia l’inventiva e la creatività di chi ci ha preceduti: lattine di petrolio trasformate in erogatori di acqua dagli arrotini; barattoli di conserva diventati griglie per setacci; capelli recuperati nelle botteghe dei barbieri e usati per imbottire collari e selle; parti di fusto di cannone, con decorazioni liberty in ghisa, convertite in stufe a carbone (le “parigine”); code di cavallo innestate su bastoni di legno e utilizzate come scacciamosche; vecchi pneumatici, in cui si inserivano appositi cinturini in cuoio, utilizzati come scarpette antiscivolo per i muli;  corna di buoi, chiuse alla base da tappi di legno, trasformate in oliere per i pastori.

A queste pratiche si aggiungeva l’importantissima attenzione ad utilizzare i materiali residui in modo variegato, per poterne sfruttare tutte le potenzialità: la cenere trovava impiego come concime, come detergente nel bucato (la liscivia) o nella concia delle pelli; il letame veniva utilizzato anch’esso come concime; i gusci delle uova, polverizzati e mescolati con acqua e cenere, servivano a creare un impasto usato dai conciapiatti per ricoprire le cuciture sulle terrecotte riparate.

C’è da dire che il riuso del passato aveva un senso più compiuto rispetto a quello attuale: oggi, spesso, dà l’illusione di risolvere il problema dello smaltimento dei rifiuti, mentre in realtà si limita a procrastinarlo nel tempo, in quanto le sostanze non biodegradabili tali restano anche se diversamente impiegate.

In conclusione, i nostri antenati si muovevano, nel campo della produzione dei manufatti e nella pratica quotidiana, guidati da un forte istinto di autoconservazione, lo stesso che l’umanità attuale, paradossalmente più istruita e consapevole dei rischi a cui va incontro, pare stia smarrendo. Non si spiegherebbero diversamente, infatti, sia lo sfruttamento insensato delle risorse naturali che l’inquinamento perseverante del suolo, dell’aria e dell’ acqua.

Sono problemi immani per la risoluzione dei quali poco o nulla potremmo fare con la pratica del riuso: siamo tutti consapevoli del fatto che andrebbero risolti con scelte etiche e coraggiose (perché spesso antieconomiche) sia da parte dei produttori (multinazionali in primis) che da parte dei consumatori, nel momento degli acquisti.

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“Non sputate per terra!” https://museolaboratorio.it/post/non-sputate-per-terra/ https://museolaboratorio.it/post/non-sputate-per-terra/#respond Sun, 17 Dec 2017 01:49:22 +0000 https://museolaboratorio.it/?p=3830 Le case dei Sassi di Matera erano malsane, per la particolare struttura delle abitazioni (in parte o tutte scavate, con unica presa di aria e luce dall’ingresso), per la mancanza di rete idrica e fognaria, per la convivenza con gli animali.

A pagare le conseguenze di tali situazioni erano soprattutto i bambini che, nei primissimi anni di vita, erano sottoposti ad una feroce selezione naturale: il 40% di essi non arrivava all’adolescenza.

Le cause della loro morte erano molteplici: bronchiti, polmoniti, febbri tifoidee, affezioni intestinali varie, malattie infantili, tubercolosi. Quest’ultima, il cui contagio era certamente favorito dalla condivisione degli spazi abitativi con gli animali, trovava facile diffusione attraverso il contatto con la saliva degli ammalati o dei portatori sani: spesso, infatti, l’infezione risultava asintomatica ed il male latente. Era molto facile per i bambini contaminarsi con la saliva degli adulti, in quanto fra gli uomini era diffusa l’abitudine di masticare il tabacco e liberarsene sputando ovunque; sappiamo che la strada era il luogo in cui i bambini giocavano abitualmente, senza osservare alcuna previdente cautela igienica, come evitare di toccare il selciato o lavare frequentemente le mani. Le goccioline di saliva emesse con la tosse secca e con gli starnuti estendevano il contagio fra gli adulti.

Fino agli anni 50 del 1900, la tubercolosi era considerata una malattia grave, invalidante e, alla lunga, mortale se non diagnosticata e curata tempestivamente. Durante il Fascismo si cercò di arginare la sua diffusione con una campagna di prevenzione estesa su tutto il territorio italiano: furono apposti nei luoghi pubblici dei cartelli che vietavano fermamente di sputare per terra, pena gravi sanzioni. Divenne obbligatoria l’installazione in uffici, botteghe, luoghi di intrattenimento, spazi comuni al chiuso o all’aperto delle famigerate sputacchiere che, se da un lato risultavano rassicuranti, dall’altro suscitavano, inevitabilmente, notevole disgusto.

Nel Museo Laboratorio della Civiltà Contadina e degli antichi Mestieri di Matera, il cartello del divieto è affiancato da un diploma di benemerenza rilasciato nel 1933 dall’Associazione Nazionale Antiblasfema all’Ufficio Igiene e Sanità del Comune di Matera, “per aver nobilmente contribuito alla diffusione del cartello antitubercolare antiblasfemo a beneficio della lotta contro la tubercolosi”.

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La “taglia” dei contadini lucani https://museolaboratorio.it/post/la-taglia-dei-contadini-lucani/ https://museolaboratorio.it/post/la-taglia-dei-contadini-lucani/#respond Sat, 07 Oct 2017 08:23:46 +0000 https://museolaboratorio.it/?p=3818 Il termine “taglia” presenta diverse accezioni: lo utilizziamo solitamente per indicare la misura di un capo di abbigliamento o l’ammontare della ricompensa promessa per la cattura di un fuorilegge.

Nel mondo contadino lucano, indicava una sorta di registro delle giornate lavorative di un bracciante. Consisteva in un bastoncino di legno lungo circa 20 cm, diviso nella parte inferiore in due parti, in senso longitudinale: una restava in dotazione del lavoratore, l’altra del datore di lavoro. Le giornate lavorative e il tipo di attività svolta nei campi venivano annotati da entrambi con una serie di segni convenzionali incisi nel legno.

Sulla “taglia” conservata nel Museo Laboratorio della Civiltà Contadina e degli Antichi Mestieri di Matera si susseguono delle X che si alternano ad alcune C ed L: è molto improbabile che tali segni fossero riconducibili ai numeri romani, in quanto indicherebbero un numero enorme di giorni di lavoro; si tratta sicuramente di simboli concordati fra le parti, infatti ad essi si affiancano anche delle E.

Al momento della paga, le due sezioni venivano accostate per una verifica del numero dei giorni annotati; si procedeva, quindi, al saldo senza incertezze e contestazioni.

Era, in definitiva, uno strumento primitivo, ma ingegnoso, che evitava discordie fra persone molto laboriose, ma scarsamente alfabetizzate, e fattori che amministravano le proprietà terriere in rappresentanza dei latifondisti o piccoli proprietari che, periodicamente (in occasione della mietitura, della trebbiatura, della vendemmia, della raccolta delle olive), usufruivano dell’attività dei braccianti.

Ovviamente, in tali circostanze, venivano impegnati più lavoratori, anche con mansioni diverse. Come si individuava la “taglia” di ciascuno di essi? Semplice: sulla superficie esterna delle due sezioni si incidevano tacche variamente disposte che, accostate, dovevano ricomporre il “disegno” originario.

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