Temi culturali – Museo Laboratorio della Civiltà Contadina di Matera https://museolaboratorio.it Sito ufficiale del museo etno-antropologico dei Sassi di Matera Sun, 25 Jul 2021 16:08:35 +0000 it-IT hourly 1 https://museolaboratorio.it/data/uploads/cropped-icon_new-100x100.jpg Temi culturali – Museo Laboratorio della Civiltà Contadina di Matera https://museolaboratorio.it 32 32 L’anello https://museolaboratorio.it/post/anello/ https://museolaboratorio.it/post/anello/#respond Sun, 25 Jul 2021 15:53:54 +0000 https://museolaboratorio.it/?p=4925 “Quel giorno in cui il governo fascista decise che tutti dovevano contribuire con oro, rame e ferro alla crescita dell’Italia, io compivo dieci anni.
I miei genitori avevano preso male la notizia.
– Con una mano prendono e con l’altra danno! – disse mio padre, riferendosi ai premi in denaro che elargivano alle famiglie numerose. La nostra era una vita di stenti, come quella di tanti altri, e di speranze risicate. Non era difficile che un bambino di pochi mesi morisse ed il premio fosse rinviato ad un’altra nascita.
Furono stabilite precise modalità per il prelievo dell’oro e dei metalli. Ogni inizio della settimana un incaricato, accompagnato da alcuni aiutanti, girava per le famiglie e verificava se in casa vi fossero più di tre pentole in rame o alluminio; il superfluo veniva ammucchiato su di un camioncino. Non erano esclusi cancelli, ringhiere, aratri in disuso e materiali ferrosi di vario genere.
La stessa sorte dovevano subire le fedi nuziali, ciondoli, spille e tutto ciò che era in oro; per questi monili preziosi, però, fu individuato un giorno di raccolta specifico per tutto il territorio nazionale. Naturalmente, all’atto della consegna, veniva rilasciata una ricevuta con tanto di firma e timbro del segretario del fascio.
Da noi si presentò proprio il 18 dicembre del 1935, giorno in cui tutti gli Italiani furono chiamati a donare l’oro alla Patria.
C’era tanta tristezza quel giorno. Dapprima prelevarono diverse pentole, comprese quelle in alluminio che usavamo in campagna per la raccolta dei pomodori; subito dopo si passò alle fedi nuziali che venivano cedute in cambio di anelli di ferro che recavano incisa la scritta “Oro alla Patria–18 nov. XIV”.
A mia madre luccicarono gli occhi quando vide mio padre sfilarsi dall’anulare la propria fede per consegnarla all’addetto, col capo basso. Nello stesso momento, rapidamente, sfilò dai lobi delle orecchie due piccolissimi orecchini e disse: – Questo è un mio piccolo anticipo per la patria: la fede mi è caduta nel pozzo perché mi andava un po’ larga –. Lo disse con tanta convinzione che noi tutti le credemmo subito; un po’ meno il segretario: la guardò con diffidenza e le annunciò che, appena possibile, avrebbe dato l’ordine di svuotare il pozzo.
Mia madre non si scompose affatto e, con dignità, assicurò che in occasione della consueta pulizia estiva della cisterna, avrebbe sicuramente ritrovato l’anello.
Ma ad agosto la cisterna non fu pulita.
Il segretario, che non aveva affatto dimenticato, si arrabbiò moltissimo e ritenne l’atteggiamento di mia madre un’offesa verso la patria passibile di punizione. Lei non si perse d’animo e, con estrema calma, cercò di porre rimedio a questa situazione di tensione.
Tra le cose del nonno, disperso nella Prima Guerra Mondiale, c’era, nascosto in una calza rattoppata, un piccolo anello di poco valore: lo prese e lo lasciò cadere nella mano del funzionario, dicendo – Ora non ho più debito, se debito bisogna chiamarlo –.
Il segretario, più rosso di un peperone, si tirò nervosamente la porta d’ingresso alle spalle. Un po’ di paura quel giorno la provammo, ma da allora non venne mai più nessuno ad esigere la fede.
Dell’anello non si parlò più anche negli anni successivi all’assegnazione delle case popolari di Serra Venerdì, che sanciva la fine di un incubo e anticipava un malessere diffuso e ancora più profondo.
Mio padre morì di tubercolosi a sessant’anni, quando mia madre ne aveva cinquantaquattro, io ventisette, mio fratello ventinove, le mie sorelle venti e ventiquattro.
Nei nuovi quartieri le sere trascorrevano nella tristezza, le strade non erano ben illuminate e c’erano ancora alcuni cantieri aperti che diffondevano un senso di disordine e di incompiutezza.
La gente, pur felice di aver abbandonato le case malsane e fatiscenti dei Sassi, era disorientata e qualcuno, incontrandoti, nemmeno salutava, non per mancanza di cortesia, ma quasi avesse paura di far emergere in una eventuale conversazione il timore che quel sogno di riscatto cominciasse a bucarsi come un pallone.
Nel 1966, dopo tredici anni dal trasferimento nella nuova abitazione, lasciammo la città e quella casa che ci aveva fatto stare bene all’inizio e tanto male dopo, dal momento che la povertà si era ripresentata anche in assenza di galline, mulo e maiale.
Non ci fu altra soluzione che cambiare mestiere e aggiungere al nostro dialetto la lingua americana.
Zia Maria, partita due anni prima di noi e già capace di esprimersi un po’ in inglese, si rese disponibile ad ospitarci e a guidarci nella nuova vita.
A novant’anni mia madre morì. Quando la vestimmo per seppellirla nel cimitero di Toronto, dalla federa del suo guanciale sbucò la sua fede nuziale che cominciò a rimbalzare sui pavimenti grigi, riflettendo una lieve luce dorata.
Tutti restammo a bocca aperta e ricordammo quell’episodio del passato: aveva mantenuto quel segreto per tanti anni, senza parlarne nemmeno con noi figli!”

Grazie Francesco per aver donato la fede nuziale di tua madre, d’accordo con i tuoi fratelli, a questo museo.
È qui, in una vetrina, sospesa con un nastro su altri monili d’epoca.
Emana un’alterigia quasi umana e riflette ancora una calda luce dorata.

(racconto di F.D., anni 94, tratto da “I racconti del Museo“)

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Matera ai tempi dell’ECOC 2019 https://museolaboratorio.it/post/matera-ai-tempi-dellecoc-2019/ https://museolaboratorio.it/post/matera-ai-tempi-dellecoc-2019/#respond Sat, 11 Aug 2018 14:34:01 +0000 https://museolaboratorio.it/?p=4433 Parlare di un evento mentre è ancora in divenire non aiuta a narrarlo in modo obiettivo: generalmente si preferisce raccontarlo al suo compimento e dargli un giudizio definitivo, positivo o negativo che sia e al netto di tutti i vissuti emotivi delle persone che vi sono state coinvolte.

Dal punto di vista antropologico, invece, sono proprio questi elementi, sui quali a volte si opera una vera e propria ellissi storica, che connotano l’avvenimento e ne danno un’esaustiva portata sociale.

La nomina di ECOC (European Capital of Culture) 2019 è stata per Matera un accadimento di portata straordinaria: anche i Materani che fino a quel momento avevano guardato ai Sassi come ad un fardello complicato da gestire e avevano considerato incomprensibilmente stravaganti i concittadini che si erano avventurati nel recupero di alcuni immobili degli antichi rioni, in tempi non sospetti e per passione personale, si sono resi conto di essere custodi e gestori di un patrimonio storico, artistico, architettonico incommensurabile.

Di conseguenza, si sono accesi i sogni di migliaia di persone e le aspettative hanno cominciato a spaziare dai servizi pubblici (infrastrutture, università potenziata, siti culturali, gestione dei flussi turistici…) al miglioramento delle condizioni economiche di tutti e di ciascuno, soprattutto con riferimento all’occupazione giovanile e ai probabili investimenti non solo nel settore turistico, ma anche e soprattutto in quello culturale.

A dire il vero, anche una lettura attenta del corposo dossier che giustificava la nomina e prefigurava le azioni da mettere in essere entro il 2019 non ha incoraggiato l’elaborazione onirica: ad alcuni appariva troppo evanescente nei suoi intenti, ad altri in gran parte incomprensibile e lontano, infarcito com’era di anglicismi che svolgevano quasi un’azione intimidatoria verso i più.

Sono seguiti anni di attività frenetiche, sia da parte dei privati che da parte delle menti preposte a decidere per il bene comune (Fondazione, Enti locali).

I primi si sono affrettati ad investire in strutture di accoglienza e ristorazione, con la conseguenza di moltiplicarle in modo inverosimile nei Rioni Sassi in cui il numero dei residenti, per contro, si è dimezzato; le seconde, alternativamente, hanno profuso le proprie energie nella ricerca di equilibri politici e gestionali non sempre condivisi dalla popolazione o nell’organizzazione di eventi periodici spesso rivelatisi effimeri , poco costruttivi e con scarse ricadute economiche durature sul territorio.

I progetti di molte strutture culturali e infrastrutturali previste (museo DEA, teatro, miglioramento dei collegamenti ferroviari, parcheggi, punti di informazione…), di competenza degli uni o degli altri, sono stati rivisti/ridimensionati/disattesi o, a tutt’oggi, appena resi operativi; non si è tentato di valorizzare, promuovere e mettere in rete i presidi culturali già esistenti né  si sono individuate definitive soluzioni per situazioni critiche inerenti a enti di prestigio locali (Biblioteca Provinciale, Archivio di Stato).

Le risorse umane locali (professionisti, studiosi, storici) non hanno avuto l’auspicato coinvolgimento nel percorso fin qui effettuato e l’opinione negativa (accompagnata da proposte costruttive) di numerosi cittadini in merito a controverse decisioni da parte di amministratori e organizzatori, presenti nei presidi decisionali di cui sopra, sono state sistematicamente osteggiate e vissute con estremo fastidio.

In questo quadro già di per sé complicato si inserisce il dilemma esistenziale che colpisce tutte le località a forte attrazione turistica: come individuare la linea di confine oltre la quale si rischia di perdere la propria unicità e di sacrificare la Storia al folclore, alla spettacolarizzazione e alla mercificazione senza limiti?

Va da sé che su quest’ultimo punto, più che sulle incongruenze programmatiche esposte, la popolazione è spaccata: le esigenze economiche, le aspettative conseguenti agli investimenti effettuati, la sensibilità ai temi storici e antropologici sono varianti che determinano la scelta di campo.

E quindi, a pochi mesi dal 2019 quale atmosfera si respira in città?

Lo stato d’animo che si avverte fra i Materani è variegato e, a volte, contraddittorio: l’anno fatidico è atteso con un’ansia di prestazione mista alla certezza di poter, comunque, contare sulla bellezza dei Sassi che non potrà essere offuscata da recenti e discussi interventi di recupero.

C’è chi teme che la bolla dell’eccezionale interesse si ridimensioni fortemente, subito dopo; chi si aggira smarrito fra le piazze e le strade rese irriconoscibili e, quasi, impraticabili dal proliferare di sedie/tavolini/ombrelloni e da cantieri che spuntano come funghi, a tempo quasi scaduto; chi contrappone ai numerosi gufi vaganti la certezza di una prestazione finale accettabile e onorevole, confidando in un tardivo ritrovato buon senso da parte dei detentori del potere decisionale; chi confida nei ministri interessati del nuovo governo per un’attività rigorosa di controllo che sproni ad azioni positive e concrete; chi ha perso ogni speranza di vedere la propria città finalmente dotata di adeguate infrastrutture e non vede l’ora di lasciarsi alle spalle questo deludente avvenimento; chi ha sperato di vedere rientrare i propri figli emigrati, ma si è reso conto che per loro si apre un ventaglio di occupazioni molto ristretto e quasi esclusivamente inerente alle attività di accoglienza e ristorazione; chi non nasconde la propria insofferenza verso i vari colonizzatori culturali che pretendono di insegnare agli autoctoni come valorizzare la propria cultura, magari rinunciando un po’ ad essere se stessi; chi, deluso per non essere stato apprezzato nelle proprie qualità professionali, cerca di limitare i contraccolpi psicologici ripetendosi, come un mantra, che nessuno è profeta in patria; chi scavalca tutti questi sentimenti con notevoli qualità acrobatiche e si vede proiettato nei giorni futuri in cui, in occasione di manifestazioni ed inaugurazioni varie, accanto alle autorità nazionali, potrà finalmente vivere momenti di gloria.

Tante situazioni, quindi, ciascuna delle quali si sviluppa in molteplici sfumature e sfaccettature; il tutto condito da una sottile e serpeggiante amarezza che spinge alcuni a provare, addirittura, nostalgia per il passato, quando la città non era al centro dei riflettori internazionali e non era oggetto della sovraesposizione mediatica di oggi.

L’evento di Matera 2019 viene vissuto oggi come altamente divisivo da gran parte dei cittadini che si sono visti coinvolti non in sani e costruttivi confronti di idee, ma in scontri spesso rancorosi, esacerbati da prese di posizioni supponenti ed arroganti, sostenute, a volte, perfino da un conclamato disprezzo fra le parti contrapposte.

Chissà che narrazione avrà tutto ciò nei libri che esporranno la storia della nostra città!

Senz’altro, e ce lo auguriamo, sarà riportato in tutta la sua valenza positiva, come pietra miliare fra un prima e un dopo, nel processo storico, etnico e culturale dell’intera città. Non ci sarà traccia dei sentimenti, delle illusioni, delle delusioni, delle aspettative, dei timori, delle speranze, dei risentimenti, delle lacerazioni che si sono insediati nell’animo dei Materani, ma questo accade nella registrazione di qualsiasi avvenimento storico, sebbene in misura variabile.

Un fatto è certo: i Materani, dopo, saranno diversi rispetto al periodo precedente il 17 ottobre 2014. E questo sarà il vero evento.

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L’abbandono dei Sassi: deportazione o agognato trasferimento? https://museolaboratorio.it/post/abbandono-dei-sassi-deportazione-o-agognato-trasferimento/ https://museolaboratorio.it/post/abbandono-dei-sassi-deportazione-o-agognato-trasferimento/#respond Fri, 30 Mar 2018 11:27:46 +0000 https://museolaboratorio.it/?p=4033 È la domanda che più di frequente pongono i turisti in visita a Matera ai diversi operatori con i quali capita di entrare in contatto; ritorna con insistenza, forse perché ricevono risposte diverse, spesso contraddittorie.

Quando un sito storico diventa un’attrattiva a livello mondiale, è facile cadere nella tentazione di permeare il luogo di un alone romantico: affermare che gli abitanti dei Sassi furono portati via dalle loro case fatiscenti con la forza, che rimpiansero le grotte per il resto della loro vita, che fu loro impedito di ritornarvi, risulta, in effetti, suggestivo per i visitatori che pensano quasi con tenerezza a chi non desiderava essere strappato da quelle cavità che tanto bene evocavano il ventre materno. A questo sentimento, però, si accompagna una inevitabile incredulità: come si poteva non desiderare un’abitazione non umida, dotata di impianti idrici e fognari, in cui non ci fosse promiscuità fra i componenti della famiglia e con gli animali? Da qui l’insistenza nel chiedere, per ricevere una risposta credibile e, magari, documentata.

Una fonte di indagine senza dubbio attendibile è lo studio su Matera promosso dall’UNRRA-Casas (United Nations Relief Rehabilitation Administration) che si protrasse dal 1951 al 1955 ed impegnò un gruppo di specialisti appartenenti ad aree culturali diverse e coordinati dal sociologo Friedmann, professore dell’università di Arkansas. Dopo aver visitato la città, lo studioso aveva avvertito, da un lato, il bisogno di approfondire la conoscenza di quei contadini che vivevano in uno stato “di quieto abbandono, dominati dalla natura”, dall’altro, l’esigenza di programmare un intervento che li aiutasse “a raggiungere un poco degli agi e delle speranze di un mondo più moderno”.

C’è da dire che già in quegli anni il mondo contadino non era più fermo e isolato come nei secoli precedenti: l’emigrazione, il commercio, i contatti con il mondo esterno favoriti dal servizio di leva, l’arrivo della luce elettrica, la radio, il cinema avevano aperto nuovi orizzonti di vita e avevano consentito ai componenti delle classi disagiate di comprendere che era possibile aspirare a stili di vita più dignitosi; che la loro condizione non era determinata da forze soprannaturali o dal destino, ma da altri uomini che fondavano i propri privilegi sullo sfruttamento delle classi subalterne a cui si impediva di soddisfare i bisogni in modo adeguato, quegli stessi signori e galantuomini (vecchia e nuova nobiltà) che risiedevano sul piano, in una posizione dominante rispetto alle migliaia di contadini, pastori e artigiani che vivevano nei Sassi.

Si stava cominciando a formare una coscienza di classe, per cui quelle che in passato venivano considerate magnanime concessioni da parte dei potenti benestanti ora iniziavano ad essere percepite come sacrosanti diritti. A tale cambiamento avevano contribuito anche le prime organizzazioni sindacali e le prime leghe (soprattutto quella organizzata dal “monaco bianco”) e l’allargamento del suffragio universale.

Della commissione Friedmann faceva parte Tullio Tentori che curò l’indagine antropologica inserita nello studio. Egli scrisse “Vecchi, giovani, bambini, uomini, donne implorano, pregano, scongiurano, pretendono giustizia” e riportò nella sua relazione alcuni desideri degli abitanti dei Sassi, raccolti in occasione di un’inchiesta sullo stato delle abitazioni.

Riportiamo di seguito una di queste testimonianze e invitiamo chi volesse approfondire l’argomento a leggere il testo “Matera 55” (ed. Giannatelli) che raccoglie i risultati dello studio sulla città.

Un padre di sette figli così descrive le proprie condizioni: “La mia casa è umida, insufficiente ai bisogni della famiglia che è composta da nove persone. Comprende un solo vano e lì dobbiamo dormire uomini e donne. È un’antica grotta che è stata accomodata a casa, per cui l’eccessiva umidità minaccia la salute specialmente dei piccoli. Essa dista circa 200 metri dal fontanino più vicino ed è pesante trasportare acqua, anche per le numerose scale interposte. La scuola per i bambini è molto distante. Oltre a tutto questo, si aggiunge che non c’è un gabinetto né una finestra perché possa esserci aereazione. È necessario che quella casa non sia usata neanche per gli animali, perché anche questi ne soffrirebbero a restare in quella tana…”

Quindi gli abitanti dei Sassi desideravano e chiedevano di andare via dagli antichi rioni e non risulta che, dopo il trasferimento, abbiano tentato di ritornarvi; qualcuno, che aveva formato un nuovo nucleo familiare, lo fece temporaneamente, ma solo per maturare i requisiti necessari per l’assegnazione di un alloggio di edilizia popolare.

Nei decenni dell’abbandono, i Materani rimossero quasi dalla propria coscienza questa pagina della propria storia che evocava una vita fatta di sofferenze e privazioni, addirittura fu interrotta la trasmissione delle tradizioni alle nuove generazioni che hanno potuto recuperare la conoscenza di usi, costumi e consuetudini del passato solo in concomitanza con le vicende relative al recupero ed alla valorizzazione dei Sassi. Questi ultimi, dopo il risanamento, divennero un buco nero al centro della città: alcuni vi si recavano solo per svolgervi attività domestiche che avrebbero sporcato le nuove abitazioni (vino, salsa); altri sfruttavano a vario titolo gli anfratti abbandonati (discariche di inerti, alcuni club per i giovani degli anni ’70, luogo operativo per malavitosi).

Certo, il trasferimento nei nuovi quartieri comportò inizialmente dei problemi di adattamento soprattutto per gli anziani che dovevano individuare nuovi luoghi di riferimento per la propria vita sociale, ma fu un disagio fisiologico e transitorio: i giovani si adattarono subito e le donne videro la loro vita sollevata da tante dolorose e faticose incombenze, grazie ai servizi presenti nelle nuove abitazioni.

In definitiva, i Sassi sono di per sé molto suggestivi e, con il proprio carico di Storia, testimoniano fortemente la capacità dell’uomo di sopravvivere e di organizzare la propria vita nelle condizioni ambientali più estreme: non hanno bisogno di favole e leggende per risultare più affascinanti.

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Il riciclo ed il riuso nel passato https://museolaboratorio.it/post/il-riciclo-ed-il-riuso-nel-passato/ https://museolaboratorio.it/post/il-riciclo-ed-il-riuso-nel-passato/#respond Sat, 03 Mar 2018 12:16:11 +0000 https://museolaboratorio.it/?p=4018 Le pratiche del riciclo e del riuso, prepotentemente tornate alla nostra attenzione negli ultimi anni, erano alla base delle attività domestiche e produttive del passato.

Oggi sono giustificate dal problema enorme dello smaltimento dei rifiuti, mentre in tempi ormai lontani avevano motivazioni di tipo economico, in quanto consentivano di evitare l’acquisto di ulteriori materie prime necessarie per produrre nuovi oggetti.

Nel mondo agricolo-pastorale e nell’ambito della produzione artigianale ad esso strettamente connesso, nonché nelle consuetudini della vita quotidiana, si avvertiva fortemente la dipendenza della vita umana dall’equilibrio delle forze naturali: ciò portava gli uomini a rapportarsi con l’ambiente circostante in modo più rispettoso, evitando lo sfruttamento dissennato delle risorse naturali, seguendo l’istinto, più che per una consapevole cultura ecologica. I nostri antenati, forse, più di noi si sentivano parte di un gigantesco ecosistema e rifuggivano quella filosofia antropocentrica che, in concomitanza con il consumismo e con il concetto dell’ “usa e getta” che ne costituisce il fondamento, ha determinato lo sfacelo ambientale con il quale oggi ci ritroviamo a fare i conti.

Il riciclo era costantemente presente, per esempio, nelle attività edili: i muratori ricavavano tufina, brecciolina e ghiaia dai residui delle demolizioni di vecchie murature, attraverso un paziente lavoro di frantumazione e selezione di pietrisco di varie dimensioni reso possibile dall’uso di mazzuole e setacci con griglie di diverso calibro.

I cocci di terracotta dei manufatti che i conciapiatti non avrebbero più potuto riparare venivano ulteriormente schiacciati, ridotti in polvere ed utilizzati, con la malta fine a base di calce aerea, per produrre il cocciopesto, un intonaco usato come rivestimento impermeabile per pavimenti e cisterne.

Anche i falegnami non disdegnavano di produrre nuovi manufatti assemblando elementi ancora in buono stato di vecchi mobili demoliti perché danneggiati in alcune parti della loro struttura: in fase di restauro si verifica spesso, nel medesimo arredo, la presenza di elementi di legni diversi opportunamente modificati e adattati alla nuova funzione.

Nelle legatorie non si esitava a utilizzare fogli di pergamena, residui di antichi libri anche manoscritti, per rinforzare le copertine delle nuove pubblicazioni: la necessità del recupero prevaleva su quella di un potenziale restauro.

È il campo del riuso, comunque, quello che riserva maggiori sorprese ed evidenzia l’inventiva e la creatività di chi ci ha preceduti: lattine di petrolio trasformate in erogatori di acqua dagli arrotini; barattoli di conserva diventati griglie per setacci; capelli recuperati nelle botteghe dei barbieri e usati per imbottire collari e selle; parti di fusto di cannone, con decorazioni liberty in ghisa, convertite in stufe a carbone (le “parigine”); code di cavallo innestate su bastoni di legno e utilizzate come scacciamosche; vecchi pneumatici, in cui si inserivano appositi cinturini in cuoio, utilizzati come scarpette antiscivolo per i muli;  corna di buoi, chiuse alla base da tappi di legno, trasformate in oliere per i pastori.

A queste pratiche si aggiungeva l’importantissima attenzione ad utilizzare i materiali residui in modo variegato, per poterne sfruttare tutte le potenzialità: la cenere trovava impiego come concime, come detergente nel bucato (la liscivia) o nella concia delle pelli; il letame veniva utilizzato anch’esso come concime; i gusci delle uova, polverizzati e mescolati con acqua e cenere, servivano a creare un impasto usato dai conciapiatti per ricoprire le cuciture sulle terrecotte riparate.

C’è da dire che il riuso del passato aveva un senso più compiuto rispetto a quello attuale: oggi, spesso, dà l’illusione di risolvere il problema dello smaltimento dei rifiuti, mentre in realtà si limita a procrastinarlo nel tempo, in quanto le sostanze non biodegradabili tali restano anche se diversamente impiegate.

In conclusione, i nostri antenati si muovevano, nel campo della produzione dei manufatti e nella pratica quotidiana, guidati da un forte istinto di autoconservazione, lo stesso che l’umanità attuale, paradossalmente più istruita e consapevole dei rischi a cui va incontro, pare stia smarrendo. Non si spiegherebbero diversamente, infatti, sia lo sfruttamento insensato delle risorse naturali che l’inquinamento perseverante del suolo, dell’aria e dell’ acqua.

Sono problemi immani per la risoluzione dei quali poco o nulla potremmo fare con la pratica del riuso: siamo tutti consapevoli del fatto che andrebbero risolti con scelte etiche e coraggiose (perché spesso antieconomiche) sia da parte dei produttori (multinazionali in primis) che da parte dei consumatori, nel momento degli acquisti.

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Ridateci il banditore https://museolaboratorio.it/post/ridateci-il-banditore/ https://museolaboratorio.it/post/ridateci-il-banditore/#respond Sat, 05 Aug 2017 12:00:00 +0000 http://museolaboratorio.it/?p=3759 Nell’era digitale essere informati sembra un gioco: in tempo quasi reale sappiamo quanto accade in ogni angolo del mondo, anche quello più sperduto.

– Che fortuna! – commentavamo all’inizio di questa rivoluzione – Finalmente potremo sapere tutto e farci un’idea precisa delle dinamiche sociali, politiche, finanziarie che determinano il destino di tutti noi; sarà più facile farsi un’opinione esatta sui vari eventi e, di conseguenza, comprendere in quale ambito di impegno sociale schierarsi! –

Capita, poi, di scoprire che molte “verità” su fatti storici più o meno recenti tali non erano, in quanto manipolate fin dall’inizio; capita di leggere versioni esattamente contrapposte sugli stessi fatti e di riconoscere la propria impotenza verso la possibilità di ristabilire la chiarezza, perché la “vera verità” rimarrà sempre preclusa a noi comuni mortali; capita di leggere molti giornali cartacei e online ormai col sorriso sulla bocca: ne conosciamo matrice ed orientamento; sorvoliamo sui media e stendiamo un velo pietoso sui social i cui post scorriamo freneticamente solo per riempire minuti vuoti, consapevoli che vi troveremo di tutto. Che grande paradosso!

L’informazione è diventata, così, una melassa appiccicosa in grado di disinformare, confondere le idee, disorientare e impedire il formarsi di una sana coscienza sociale e politica nonché l’acquisizione di una corretta conoscenza di quei fatti storici che hanno determinato il presente. Non ci fidiamo più dei libri di Storia, di resoconti giornalistici, di indagini condotte magari anche da professionisti dell’informazione seri e deontologicamente trasparenti. Ecco, diffidenza diffusa, con conseguenti cinismo e paralisi nell’impegno sociale.

Ci ritorna in mente, a questo punto, la figura del banditore che, in passato, si occupava proprio della comunicazione: girava per le strade della città, segnalava la sua presenza con uno squillo di tromba e, una volta assicuratasi l’attenzione dei cittadini, leggeva ad alta voce le disposizioni delle autorità o informava in merito ad eventi particolari (vendite, spettacoli, fiere…) che andavano a movimentare il ritmo consueto della vita quotidiana. Gli eventi o i provvedimenti da lui annunciati erano tutti verificabili direttamente e, magari, potenzialmente contestabili. D’accordo, non si sapeva quanto accadeva al di fuori del proprio territorio, ma si aveva la possibilità di tenere sotto controllo la realtà sociale in cui si era immersi, sia pure soltanto in ambito conoscitivo, ma senza l’esclusione della partecipazione e dell’impegno, commisurati al coraggio ed alla voglia effettiva di cambiare/migliorare qualcosa.

Allora, per favore, stop alla valanga di notizie (saranno vere, false, distorte? Chi lo sa!): a questo punto ridateci una nuova figura di banditore che diffonda quattro informazioni concrete, soprattutto verificabili nella loro veridicità e, magari, prontamente contestabili se ce ne fosse la necessità.

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Le usanze funebri: le distinzioni fino alla fine https://museolaboratorio.it/post/le-usanze-funebri-le-distinzioni-fino-alla-fine/ https://museolaboratorio.it/post/le-usanze-funebri-le-distinzioni-fino-alla-fine/#respond Sat, 29 Oct 2016 09:12:02 +0000 http://museolaboratorio.it/?p=3636 L‘idea che la morte svolgesse una funzione livellatrice veniva respinta nel vecchio sistema di vita in cui fra i privilegiati e l’umanità ad essi sottoposta intercorrevano unicamente legami di dipendenza e di servitù. La Chiesa assecondava tale polarizzazione sociale affidando al suono di differenti campane l’annuncio del decesso di un aristocratico o di un popolano: per il primo si usava lo “squidde”, per il secondo lo “squidduzze”. Il numero dei rintocchi presentava ulteriori variazioni: sette per l’uomo, cinque per la donna; per i bambini avevano un suono meno cupo.

Il decesso avveniva di solito in casa, molto raramente in ospedale. I familiari provvedevano a fornire al moribondo tutti i conforti religiosi e i congiunti più stretti si occupavano della vestizione e della sistemazione della salma, in modo che avesse una postura composta e dignitosa: legavano dei panni arrotolati intorno ai piedi e al capo, in modo che la bocca restasse chiusa e i piedi uniti. Nella bara si ponevano alcuni oggetti a cui il defunto era particolarmente legato o di cui avrebbe potuto aver bisogno nell’al di là. La salma veniva disposta con i piedi rivolti verso l’ingresso dal quale sarebbe dovuta uscire.

La veglia funebre durava tre giorni, per consentire ai parenti che vivevano lontano o abitavano in campagna di giungere in tempo per parteciparvi. La camera ardente veniva allestita nel vano più grande o nell’unico ambiente nel quale si viveva; si sistemavano delle sedie intorno alla bara, si coprivano gli specchi, per evitare lugubri riflessi o vanitose distrazioni. Aveva inizio, quindi, il lamento funebre che, secondo le ricerche di Ernesto De Martino, si articolava in tre momenti: la scarica di impulsi, con tendenze autolesionistiche; le stereotipie verbali mimiche e melodiche; l’adattamento del dolore al caso concreto. Era in quest’ultima fase che le donne lodavano il defunto e ne sottolineavano l’elevatezza morale e le doti che lo avevano contraddistinto in vita. I più benestanti si facevano affiancare dalle prefiche, lamentatrici a pagamento che, con le proprie prestazioni plateali e coinvolgenti, amplificavano l’espressione del dolore dei parenti.

Anche il corteo funebre aveva una composizione diversa, a seconda dell’estrazione sociale del defunto: i benestanti si assicuravano la partecipazione di numerosi sacerdoti (il capitolo o il mezzo capitolo) e delle orfanelle degli istituti religiosi della città, a volte anche della banda musicale. Un tempo vi partecipavano solo gli uomini, in seguito iniziarono a parteciparvi anche le donne; esso era capeggiato dai parenti dello stesso sesso di chi era scomparso. Il feretro, in passato, veniva trasportato a spalle da parenti o amici; successivamente si usarono carrozze trainate da due cavalli, più o meno sontuose, sempre a seconda del censo dei dolenti. Ai funerali dei membri della Confraternite religiose partecipavano tutti i componenti delle associazioni, muniti del proprio stendardo e rigorosamente in divisa.

Conclusasi la cerimonia religiosa, il corteo proseguiva verso il cimitero di Via IV Novembre; i conoscenti porgevano, all’ingresso, le condoglianze ai parenti che, da soli, assistevano alla tumulazione.

Dopo i funerali, i parenti più stretti portavano a casa del defunto il consòlo, “u cunz”, una cena a base di pasta in brodo di carne; tale consuetudine si ripeteva nei giorni successivi, dal momento che i congiunti del defunto non potevano uscire, non si recavano nemmeno al lavoro e ricevevano le visite di condoglianze.

Seguiva un periodo di lutto stretto durante il quale gli uomini non si radevano, per accentuare lo stato di prostrazione interiore, e applicavano una fascia nera al cappello e alla manica sinistra della giacca o del cappotto; le donne vestivano interamente di nero, calze e fazzoletto in testa compresi. Il lutto stretto aveva una durata variabile, in base al legame di parentela con il defunto: poteva durare da uno a più anni. Si passava, quindi, al “mezzo lutto”, con l’inserimento di qualche indumento scuro, ma non nero; infine veniva eliminato completamente. Molte vedove portavano il lutto a vita, per scelta o per il susseguirsi di decessi in famiglia.

Secondo la tradizione popolare, alcune anime non riuscivano a trovare pace e vagavano, in pena. In diversi racconti degli anziani, che spaventavano terribilmente bambini e giovani e frenavano le velleità avventuriere di alcuni, ricorrevano incontri inquietanti con defunti, alla ricerca del riposo eterno, che non disdegnavano il contatto con i vivi. Il 2 novembre, inoltre, si riteneva che avesse luogo la “processione delle anime del Purgatorio” che dalla Chiesa di S.Pietro Caveoso raggiungeva Piazza Sedile, proseguiva verso la Chiesa del Purgatorio, scendeva lungo Via Pennino e ritornava al punto di partenza.

Inutile sottolineare che, durante quella notte, le strade dei Sassi restavano deserte e diventavano il regno delle ombre.

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La donna nel mondo contadino: serva, ma anche padrona https://museolaboratorio.it/post/la-donna-nel-mondo-contadino-serva-ma-anche-padrona/ https://museolaboratorio.it/post/la-donna-nel-mondo-contadino-serva-ma-anche-padrona/#respond Sat, 18 Jun 2016 09:33:17 +0000 http://museolaboratorio.it/?p=3533 Nel mondo contadino materano, come in tutte le società del passato, i maschi dominavano sulle femmine, in quanto considerate semplice ricettacolo del seme maschile.

Tale condizione si evidenziava già al momento della nascita: il figlio, nel quale il padre si identificava, veniva accolto con esultanza; la bambina era considerata un peso, paragonata ad una “cambiale”, sia perché non poteva lavorare come i maschi nei campi o altrove, sia perché la vigilanza sulla sua integrità morale avrebbe richiesto maggiore impegno. Il principio della sua netta inferiorità rispetto all’uomo aveva, infatti, come diretta conseguenza, un differente criterio di valutazione delle azioni dei rappresentanti dei due sessi, soprattutto nell’ambito morale.

Un peso, dunque, da sopportare fino al matrimonio, quando veniva affidata dal padre al marito-tutore, in uno scambio da uomo a uomo in cui la donna veniva considerata alla stregua di un oggetto, senza possibilità di scelta.

C’è da dire che la moglie, però, era il fulcro dell’economia e dell’equilibrio interni della famiglia della cui gestione era responsabile indiscussa; ma i suoi ruoli non si esaurivano in questo impegno: nei campi svolgeva lavori agricoli di minore portata, come la spigolatura, la vendemmia, la raccolta delle olive ; interveniva in mancanza di manodopera maschile; coltivava l’orto; allevava animali da cortile; si dedicava a piccole forme di commercio, come la vendita delle uova; occupava il tempo libero con lavori di filatura, rammendo, ricamo, maglieria, per sopperire ai bisogni implacabili della miseria; in caso di vedovanza o di assenza del marito, in guerra o emigrato, la sopravvivenza della famiglia dipendeva da lei.

L’impiego in lavori nei campi che non richiedevano competenze specifiche faceva sì che la donna sviluppasse grandi capacità di versatilità ed adattabilità nei ruoli più diversificati.

Le attività esterne all’ambito domestico venivano svolte di sera, nel vicinato, spazio aperto e comune in cui la donna poteva uscire dall’isolamento della propria abitazione e relazionarsi con le vicine con le quali stabiliva un rapporto di mutuo soccorso nel lavoro, nelle esigenze della vita quotidiana e in situazioni particolarmente impegnative, come le malattie, il parto, i lutti. C’è da dire che la stessa comunità esercitava un feroce controllo sociale su tutte le sue componenti e i nuclei familiari di cui facevano parte: dal giudizio dei vicini dipendevano l’onore e il rispetto, mentre il disprezzo e i pettegolezzi alimentavano, molto spesso, tensioni insostenibili che sfociavano in litigi e situazioni di isolamento sociale, per fortuna sempre reversibili.

Dunque l’esistenza maschile e femminile erano contrassegnate anche da una netta separazione degli spazi di lavoro e di svago: l’uomo, nel tempo libero, poteva uscire, incontrare gli amici in piazza o, più frequentemente, nelle cantine pubbliche, in luoghi alternativi al vicinato.

Diversa era la situazione delle mogli dei piccoli e medi proprietari che si occupavano sì della gestione della casa, ma lasciavano le incombenze più faticose ed umili a chi occupava i gradini più bassi della scala sociale. Stranamente il benessere rafforzava l’immagine maschile all’interno della famiglia e allontanava la donna da qualsiasi impegno economico e produttivo: ciò la rendeva completamente dipendente dal padre, dal marito, da un fratello o cognato, nel caso fosse rimasta nubile.

Questo spostamento di asse all’interno delle famiglie si evince da numerose foto d’epoca, in cui la donna a volte siede al centro con il marito, altre volte è in piedi alle sue spalle, a seconda del peso della sua funzione nell’economia e nell’equilibrio familiari. Il primo caso è tipico delle famiglie contadine, il secondo di quelle borghesi.

Il processo di emancipazione della donna è stato, negli anni, connotato da grande cautela: il timore di compromettere le proprie possibiltà di matrimonio o di nuocere alla reputazione della famiglia di appartenenza hanno frenato atteggiamenti arditi e rivoluzionari, per cui si è preferito attendere che la comunità di origine accettasse situazioni e comportamenti innovativi, prima di abbandonare le vecchie consuetudini di sudditanza all’uomo e di preclusione sociale e culturale.

Oggi qui, come ovunque, la donna è libera di scegliere il proprio destino e di intraprendere qualsiasi percorso professionale: sono gli uomini, per fortuna non tutti, che non riescono a liberarsi dell’ossessione del predominio sulle donne; sono i governi che non intervengono con decisione in situazioni di discriminazione e sfruttamento sul posto di lavoro. “Caporalato” e “femminicidio” sono termini che ricorrono quotidianamente nei fatti di cronaca, a ricordarci che c’è un percorso di giustizia sociale da completare, a risarcimento di umiliazioni e sofferenze secolari inferte ad una donna amata, odiata, respinta, cercata, sfruttata, sottomessa, mortificata e, forse o soprattutto, temuta.

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Il matrimonio: un vincolo indissolubile https://museolaboratorio.it/post/il-matrimonio-un-vincolo-indissolubile/ https://museolaboratorio.it/post/il-matrimonio-un-vincolo-indissolubile/#respond Tue, 12 Apr 2016 13:45:43 +0000 http://museolaboratorio.it/?p=3373 Il matrimonio veniva affrontato con la consapevolezza che si trattasse di un legame indissolubile, nonostante i dubbi e le incertezze derivanti da un rapporto di coppia raramente sostenuto da legami affettivi e sentimentali: nel bene e nel male, sarebbe durato per tutta la vita.

Generalmente si fissava di sabato la data della cerimonia civile e di domenica quella della funzione religiosa. Una volta effettuati i controlli reciproci in merito all’assolvimento degli impegni assunti al momento del “parlamento”, avevano inizio i preparativi per la festa che si protraevano, di solito, per una settimana. Essa doveva risultare, soprattutto presso le famiglie contadine, particolarmente sontuosa, per compensare l’estrema miseria che contrassegnava le condizioni dell’esistenza quotidiana.

Nei giorni precedenti l’evento, le donne della famiglia, spesso aiutate da amiche o vicine di casa, preparavano notevoli quantità di biscotti e di piccoli pani che venivano cotti nei forni a legna. I fornai li trasportavano su tavole di legno e attiravano l’attenzione dei passanti e degli abitanti delle case dei Sassi che si affacciavano lungo il tragitto verso i forni con un richiamo particolare: “U ppen d la z’t!” (Il pane della sposa!). A cottura avvenuta, la tonalità del colore della crosta veniva considerata di buon auspicio o di cattivo presagio, a seconda della propria intensità: doveva essere “dorata” perchè potesse portare fortuna agli sposi.

Due giorni prima della cerimonia, si allestivano gli spazi per i festeggiamenti: di solito, si sgombrava un lamione dagli arredi abituali e vi si predisponevano panche e tavole; le pareti e il soffitto venivano decorati con luci e strisce di carta colorata.

Il venerdì sera, alcune donne della famiglia si recavano nella casa dei futuri sposi per preparare il letto matrimoniale nel quale introducevano, scherzosamente, oggetti che potessero recare disturbo agli sposi, durante l’attesa prima notte, o amuleti che scongiurassero la funesta eventualità che l’unione non fosse consumata.

Il sabato si svolgeva il rito civile: la sposa indossava un abito festivo (gonna di panno, giubbino di velluto e fazzoletto di seta) e si recava in municipio, accompagnata da una parente prossima e seguita da un corteo di donne; lo sposo la raggiungeva, in abito grigio, accompagnato dai propri parenti. Al termine della cerimonia, ritornavano alle rispettive case paterne.

La domenica aveva luogo la celebrazione religiosa, per la quale la sposa indossava, prima degli anni Trenta, un abito di seta colorata, stivaletti o scarpe anch’esse di seta, fiori d’arancio fra i capelli. Successivamente si diffuse l’uso dell’abito bianco e, fino agli anni Quaranta, divenne una consuetudine predisporre per quel giorno due abiti: uno bianco, simbolo di purezza, che veniva acquistato dai genitori dello sposo, assieme alle scarpe, al velo e ai fiori; uno nero, simbolo della perdita della verginità, che veniva indossato in pubblico dopo la prima notte e al cui acquisto provvedevano i genitori della sposa. Lo sposo, a sua volta, in tempi più antichi sfoggiava un abito nero con cravatta bianca che, spesso, veniva conservato con cura per poter essere utilizzato sul letto di morte; a partire dagli anni Quaranta, si diffuse l’uso di abiti grigi più sobri. Non era raro che entrambi gli sposi appuntassero sugli abiti spillette con piccoli amuleti portafortuna, come forbici o ferri di cavallo in miniatura.

Il corteo nuziale si componeva secondo regole bel precise: lo apriva la sposa accompagnata dal padre, seguiva lo sposo con la propria madre; di seguito si disponevano prima i parenti della sposa a coppie e, infine, quelli dello sposo. All’uscita dalla chiesa, l’ordine veniva invertito, ad indicare il passaggio della donna sotto la tutela del marito. In chiesa, le nubili sedevano sull’ala destra e la sposa era affiancata da una parente prossima che, al momento della comunione, le poneva sul capo un fazzoletto di seta, in funzione protettiva contro eventuali forze malefiche delle quali poteva diventare facile preda, una volta purificata dal sacramento. Al termine della cerimonia, gli sposi rendevano pubblica la propria unione compiendo un giro fra le strade dei Sassi e scegliendo un percorso alternativo a quello dell’andata, per ingannare e disperdere gli spiriti maligni sempre in agguato.

A questo punto aveva luogo l’abbondante pranzo nuziale per la preparazione del quale chi poteva permetterselo, a volte ed in via del tutto eccezionale, assumeva un cuoco esperto. Sulla tavola si susseguivano, per ore, i piatti tradizionali tipici delle grandi feste: brodo di agnello con le cicorielle, pasta con il ragù, arrosto con interiora di agnello, frutta, dolci, vino e rosolio a volontà; l’intervallo con la cena era impegnato con balli ed allegre conversazioni.

Al termine dei festeggiamenti, gli sposi venivano accompagnati alla nuova abitazione; la donna veniva sollevata fra le braccia, per evitare che toccasse la soglia della casa nei pressi della quale potevano essere presenti le costantemente temute forze maligne; capitava che gli amici si attardassero, fuori dell’abitazione, e tentassero allegramente di disturbare, con canti e suoni, l’unione carnale dei novelli coniugi. Il giorno seguente avveniva il rigoroso controllo, effettuato dalla madre dello sposo, dell’avvenuta perdita della verginità da parte della nuora, spesso completato dall’esposizione delle lenzuola macchiate di sangue. Possiamo immaginare le tragedie che seguivano un mancato riscontro positivo.

A Matera, nei secoli scorsi, si è conservata a lungo la tradizione del “Morgengab” o dono del mattino, di origine longobarda: il marito, in segno di ringraziamento per l’avvenuta consumazione del matrimonio, faceva dono alla moglie di abiti, soldi o gioielli; presso le famiglie benestanti ciò consentiva alle donne di disporre di una dote personale, utile soprattutto in caso di eventuale vedovanza.

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Il fidanzamento: l’amore dopo il matrimonio. https://museolaboratorio.it/post/il-fidanzamento-lamore-dopo-il-matrimonio/ https://museolaboratorio.it/post/il-fidanzamento-lamore-dopo-il-matrimonio/#respond Sat, 12 Mar 2016 09:33:58 +0000 http://museolaboratorio.it/?p=3261 In passato, il fidanzamento costituiva il preludio alla realizzazione della propria indipendenza dalla famiglia di origine.

La scelta matrimoniale, però, non dipendeva dalla volontà dei contraenti, per motivi diversi, a seconda della classe sociale di appartenenza. I “signori” imponevano ai propri figli i “partiti” più vantaggiosi dal punto di vista economico; i ragazzi del popolo, privi di qualsiasi esperienza sentimentale, concepivano l’amore solo come soddisfazione dei bisogni sessuali ed affidavano volentieri ad altri il compito di risolvere tale questione. Una solida barriera di pregiudizi sociali contribuiva a rendere difficoltosi i rapporti fra i giovani dei due sessi, per cui era raro che si intrecciassero storie d’amore o ci fosse spazio per le schermaglie sentimentali nella vita quotidiana, segnata dall’ingenuità e dall’abbrutimento della fatica incessante. Le ragazze, che molto presto imparavano a tessere le stoffe per il corredo, pur desiderando l’esperienza matrimoniale, reprimevano gli atteggiamenti volti a suscitare l’attenzione dei possibili pretendenti, nel timore di compromettere la propria reputazione e rischiare di rimanere “zitelle”. L’ansia di non poter raggiungere tale meta traspariva, però, dalle diffuse pratiche superstiziose con le quali cercavano di interrogare il destino e, all’occorrenza, di forzarlo con “fatture” che avevano lo scopo di legare a sè un eventuale pretendente.

Generalmente, era una figura femminile a combinare il matrimonio: la madre o qualche parente prossima. Il rigoroso controllo sociale consentito dalla vita nel vicinato favoriva l’individuazione della ragazza più adatta e il successivo “discorso” con il ragazzo al quale si segnalava l’opportunità di crearsi una famiglia propria. Il maschio delegava; la ragazza prescelta accettava passivamente, in quanto un suo eventuale rifiuto sarebbe risultato una imperdonabile mancanza di rispetto nei confronti dei genitori. Nessun interesse emotivo, nessun impulso romantico, quindi, segnava l’inizio del rapporto di coppia.

Il fidanzamento ufficiale era preceduto dal “parlamento”: i genitori dei due giovani si incontravano nella casa di una famiglia neutrale, cioè non imparentata strettamente con gli uni o con gli altri, e stabilivano la consistenza della dote di entrambi. Veniva redatto un documento scritto, spesso con l’aiuto di un conoscente “letterato”, che era noto come “la carta della zita” ed era l’equivalente dei “capitoli”, contratti matrimoniali stipulati presso le famiglie signorili.

La donna portava in dote la biancheria personale, i vestiti, le lenzuola, le coperte, i materassi ed una cassapanca; l’uomo doveva ugualmente provvedere ai propri indumenti e a qualche mobile; quando era possibile, riceveva dai genitori alcuni attrezzi da lavoro, sementi e l’affitto di un campo di grano per un anno. Queste erano considerate le basi fondamentali per l’economia del nuovo nucleo familiare.

Alcuni giorni dopo il “parlamento”, avveniva la cerimonia della “trasuta”, cioè il vero e proprio fidanzamento segnato dal dono di un anello. Per l’occasione si preparavano biscotti da offrire con il vino agli invitati, parenti e conoscenti vari. Non era raro che i due futuri sposi si incontrassero per la prima volta proprio in questa occasione, imbarazzati e intimiditi dagli sguardi indagatori dei presenti. Dopo questa cerimonia, era loro consentito di incontrarsi ed uscire nei giorni di festa, sempre accompagnati da qualche parente della ragazza che esercitava un’attenta sorveglianza affinchè non restassero da soli e non avessero, di conseguenza, la possibilità di scambiarsi effusioni o confidenze intime, compromettendo la reputazione della futura sposa.

Il giorno prima del matrimonio, le famiglie procedevano ad un accurato controllo delle reciproche doti: nel caso non fossero stati rispettati gli impegni assunti (cosa non infrequente, data la tendenza euforica dei poveri contadini e dei pastori a promettere più di quanto potessero permettersi, per nascondere la propria miseria o cedere alle richieste dei figli), si poteva giungere alla rottura del fidanzamento. In tempi più recenti, e fino agli anni 60 del XX sec., si osservava anche la consuetudine di esporre il corredo di entrambi i giovani, per ostentare l’impegno onorato ed estenderne il controllo ad amici e conoscenti.

Il matrimonio dei numerosi figli causava, inesorabilmente, un progressivo impoverimento dei genitori, condannati a vivere in una condizione di stabile miseria, al contrario dei benestanti che, per la consuetudine maggiorascale, avevano la possibilità di vedere accresciuto e consolidato il proprio patrimonio.

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Il Battesimo, tra il sacro e il profano https://museolaboratorio.it/post/il-battesimo-tra-il-sacro-e-il-profano/ https://museolaboratorio.it/post/il-battesimo-tra-il-sacro-e-il-profano/#respond Sun, 28 Feb 2016 13:02:52 +0000 http://museolaboratorio.it/?p=3244 Il Battesimo è, per i credenti, un sacramento di fondamentale importanza, in quanto consente l’ingresso del neonato in una condizione umana e cristiana.

Esso, però, nel passato, e fino agli inizi del XX sec., presentava aspetti particolari che gli conferivano un valore apotropaico, soprattutto fra le classi subalterne, la cui vita quotidiana era impastata di elementi religiosi e magici…

I bambini, più fragili degli adulti e maggiormente esposti a malanni di ogni genere, avevano bisogno di una tempestiva protezione divina, integrata, all’occorrenza, da scongiuri, formule ed anatemi. Se presentavano problemi gravi di salute già alla nascita e si considerava improbabile la loro sopravvivenza, venivano battezzati in forma privata. Il timore di dovere affrontare situazioni simili induceva i genitori ad infilare nelle fasce dei neonati dei sacchetti di tela, gli “abitini”, contenenti immagini sacre, preghiere, ma anche formule esorcistiche e piccoli feticci: il tutto avrebbe contribuito ad allontanare eventuali presenze demoniache dai bambini.

Normalmente il rito veniva celebrato nelle prime settimane di vita, non appena lo consentiva lo stato di salute della madre la quale, nell’occasione, si purificava dal peccato commesso con l’atto sessuale e poteva finalmente baciare il proprio figlio, senza il timore di trasmettergli la negatività della propria condizione di peccatrice.

Molte donne non avevano piena consapevolezza del significato religioso di questo rito, ma erano ansiose di compierlo, nel timore che i propri figli fossero considerati maledetti e potessero, in questa situazione, essere tormentati da fantasmi orribili, una volta divenuti adulti. Di conseguenza, le formule di rito di cui non riuscivano appieno a comprendere il senso, spesso, venivano involontariamente alterate e trasformate in espressioni prive di significato logico, ma perciò caricate di valenza potente ed arcana.

Il rischio peggiore che correvano i bambini morti senza essere stati battezzati era, secondo le credenze popolari, quello di essere trasformati in “monacelli”, spiritelli dispettosi, pelosi e buffi, connotati da un caratteristico cappuccio rosso in cui erano concentrati i loro poteri. La  presenza in casa di questi esseri fastidiosi era segnalata da “eventi strani e frequenti”:  ci si sentiva mancare il respiro durante la notte,  si avevano visioni inquietanti,  le coperte volavano via improvvisamente. Per neutralizzarli, bisognava strappare loro il cappuccio magico: li si poteva così ricattare e promettere di restituirlo solo dopo che  gli spiritelli avessero rivelato i nascondigli segreti di mitici tesori. Cosa che non accadeva mai, in quanto l’astuzia dei monacelli sopraffaceva, inevitabilmente, l’ingenuità delle vittime.

Ernesto De Martino, etnologo, antropologo e storico delle religioni, in “Sud e magia” (1959),  spiegava queste esperienze, narrate da molti popolani in quanto vissute personalmente, come azioni compiute in uno stato psichico alterato, di vera e propria coscienza dissociata.

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Istruzione e cultura, nella Storia di Matera https://museolaboratorio.it/post/istruzione-e-cultura-nella-storia-di-matera/ https://museolaboratorio.it/post/istruzione-e-cultura-nella-storia-di-matera/#respond Sun, 13 Dec 2015 19:01:44 +0000 http://museolaboratorio.it/?p=3093 Alla fine del XVIII sec., quando Matera era ancora sede della Regia Udienza, l’istruzione veniva impartita nelle scuole primarie parrocchiali, nella Regia Scuola (fondata nel 1770 e soppressa nel 1799) e nel Seminario Diocesano.

Nelle scuole primarie s’insegnava a leggere, scrivere, a far di conto e s’impartivano nozioni di catechismo e di morale; erano scarse e funzionavano in modo irregolare, in quanto poco frequentate. La tassa di frequenza di ciascun alunno era di un carlino, per cui i contadini, che non potevano affrontare tale spesa per la numerosa prole, preferivano tenere i figli a casa e avviarli ancora giovanissimi al lavoro.C’è da dire, comunque, che il bisogno dell’istruzione primaria non era sentito neppure dai possidenti e dai patrizi, infatti non era raro che membri della municipalità e lo stesso sindaco, eletti fra i notabili, non sapessero firmare. Tale situazione sollecitò una disposizione di legge, nella prima metà dell’800, secondo la quale almeno un terzo degli esponenti del governo cittadino doveva saper leggere e scrivere.

Nel 1840, una circolare dell’Intendente escluse gli ecclesiastici dall’insegnamento, in conseguenza dell’influsso delle idee liberali sulla politica borbonica: i laici sostituirono i sacerdoti, ma la situazione delle scuole e la diffusione dell’istruzione non migliorò; poco dopo, il clero fu riabilitato e, in aggiunta, fu riconosciuto ai vescovi il diritto esclusivo di scelta degli insegnanti e dei libri.

Nelle successive evoluzioni della scuola, in senso più laico e borghese, comunque rimase scarsa l’evoluzione culturale: da alcuni secoli la società era statica, lontana da ogni aspirazione al progresso, incapace di sollecitare le coscienze e favorire l’elevamento dell’animo umano. In essa, saldamente ancorata alle proprie basi di pregiudizi e passività, non penetravano le nuove idee di libertà, di patria, di libero pensiero: riguardavano la gente di studio e si riferivano ad una nazione lontana ed astratta. Se i notabili e i nobili seguivano le vicende del Risorgimento con simpatia, il popolo, schiavo e inanimato, che conosceva solo i paesi vicini, non ne fu toccato, impegnato ad assicurarsi il minimo indispensabile per sopravvivere, fra fatiche, patimenti e assoggettamento psicologico ad un sistema sociale che si era fortemente stabilizzato nei secoli. Il Cattolicesimo aveva avuto modo e tempi sufficienti per uniformare l’istruzione scolastica ad un complesso inerte di precetti, riti e rispetti che difficilmente avrebbero potuto sollecitare risvegli di coscienze e consapevolezza di diritti e potenzialità.

Dopo il 1860, il Seminario, rimasto del tutto deserto, fu convertito in Corso ginnasiale e liceale; successivamente, fu creata una Scuola Tecnica, annessa al Liceo, per cui la città parve assumere l’aspetto di un tranquillo e raccolto centro di studi, ma il livello della cultura rimase basso, in quanto le scuole primarie e medie continuarono ad essere scarsamente frequentate dai figli del popolo, ancora saldamente imbrigliato nelle maglie del bisogno e dello sfruttamento sistematico da parte di nobili, borghesi ed esponenti del clero.

I dati relativi all’istruzione scolastica, risalenti alla fine del 1800 e agli inizi del 1900, indicano una lieve tendenza al miglioramento, ma rivelano un quadro fallimentare se confrontati con la situazione scolastica del centro e del nord Italia: nelle statistiche della Pubblica Istruzione, la Basilicata risulta all’ultimo posto.

Solo nel Secondo Dopoguerra si rilevano dati significativi di riduzione dell’analfabetismo ed è senz’altro a tale periodo storico che si può fare risalire l’avvio di un lento processo di evoluzione culturale, proteso verso l’impegno, la partecipazione e il miglioramento sociale, attraverso la rottura di quella crosta di consuetudini che avevano per troppo tempo determinato una totale immobilità morale, politica ed economica.

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La Chiesa e i Sassi https://museolaboratorio.it/post/la-chiesa-e-i-sassi/ https://museolaboratorio.it/post/la-chiesa-e-i-sassi/#respond Sun, 15 Nov 2015 00:07:45 +0000 http://museolaboratorio.it/?p=3064 Gli atti notarili conservati a Napoli, nell’Archivio di Stato, fanno risalire all’XI secolo l’origine del demanio a Matera e alla dominazione dei Normanni le prime donazioni di terre ai monasteri.

Nei secoli successivi, la città perse la sua demanialità e divenne feudo, ma non fu interrotta la consuetudine, da parte dei feudatari, di donare le terre a chiese e monasteri; secondo le platee dei beni ecclesiastici del Procuratore del registro di Matera, le proprietà ecclesiastiche si rafforzarono, a seguito di continue donazioni, soprattutto nel XVI secolo, cioè nel periodo in cui la città passava da un feudatario all’altro.

Erano terre sottratte ai demani della Università (Comune), nei quali erano consentiti ai cittadini gli “usi civici”, fra cui quello di raccogliere la legna.

Il primo patrimonio ecclesiastico, così costituito, si ampliò, successivamente, grazie all’opera di esponenti del clero che incoraggiavano le donazioni private, soprattutto con testamenti “de anima”, in cambio di protezione accordata ai donatori e previa la stesura di atti notarili con i quali si impegnavano a celebrare, periodicamente, delle messe in suffragio delle anime dei defunti benefattori.

Fra la seconda metà del 1700 e la prima metà del 1800, a Matera era presente un clero numerosissimo, maschile e femminile, suddiviso in Capitoli, Monasteri e Cappelle (circa ventuno); esso occupava una posizione di assoluta preminenza nella comunità, sia perchè la città era sede di arcivescovado, sia perchè poteva contare su enormi ricchezze, franche da imposte fino al 1741 e poi gravate solo per metà dai carichi pubblici.

Del clero regolare si hanno scarse notizie, mentre appare chiara la condizione del clero secolare che proveniva dalle famiglie signorili, le quali cercavano di mantenere le proprietà e di accrescere il proprio prestigio attraverso la Chiesa; esso esercitava un forte ascendente fra la plebe, anche se non sempre si distingueva per cultura e, a volte, per onestà di costumi. Oltre che della cura delle anime, il clero si occupava dell’amministrazione dei beni della Chiesa: ai due terzi della proprietà terriera del tenimento di Matera (come si evince dal catasto onciario del 1754), si erano aggiunti, nel tempo, numerosi altri immobili (case, botteghe e fabbricati vari) che piccoli e grandi proprietari offrivano spontaneamente, soprattutto in concomitanza con pestilenze, guerre e carestie. Sugli architravi di numerosissime abitazioni dei Sassi sono ancora oggi visibili simboli religiosi, come teste di angeli e ostensori, o acronimi (il più diffuso è CME = Capitulum Metropolitanae Ecclesiae) che ne indicano, appunto, l’appartenenza passata alla Chiesa.

Risulta singolare il fatto che, se era diffusa la tendenza da parte dei privati a donare i propri beni alla Chiesa, al contrario non emerge dalle carte notarili alcun testamento di sacerdote in favore della stessa: i preti donavano ai parenti.

Oltre che dalle donazioni testamentarie, il patrimonio della Chiesa era alimentato dalla riscossione di tasse e gabelle, come lo scannaggio, dazio che si pagava sulle carni macellate e fruttava tanto denaro. Molto scalpore ha suscitato la richiesta scritta, pervenuta nell’agosto di quest’anno da parte della Diocesi a circa duemila Materani, del pagamento del “canone enfiteutico”, gabella medievale relativa ai terreni su cui sono sorte le loro abitazioni e di cui la Chiesa era, in passato, proprietaria. Senza tenere conto del fatto che, nel corso dei secoli, quei terreni hanno cambiato decine di proprietari, dinanzi alle proteste dei cittadini, alcuni esponenti della Diocesi si sono difesi ricordando che “nel 1600, quasi tutta Matera era di proprietà della Chiesa”.

Il patrimonio personale di molti sacerdoti, invece, aumentava con l’esercizio del prestito di denaro ad alto interesse: fra il 1828 e il 1839 furono accesi molti mutui, i più lucrosi dei quali furono quelli del clero (interesse medio del 10%). Quest’ultimo, inoltre, si occupava dell’istruzione primaria, remunerata dal Comune, nelle scuole parrocchiali e dell’istruzione media nel seminario arcivescovile, creato nel 1671 da mons. Lanfranchi.

Un ruolo importante, infine, ebbe il clero nella scelta dei deputati, attraverso il sistema delle elezioni parrocchiali, che nel 1820 e nel 1848 elessero a Potenza i deputati al Parlamento napoletano, nonchè nella scelta dei decurioni per l’Università (Comune) e dei consiglieri distrettuali e provinciali.

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