“Vi è un luogo a Matera, città dei Sassi, dichiarata nel ’93 patrimonio dell’Umanità dall’Unesco, dove si ritrova intatto lo spirito che animò quell’umanità laboriosa e ingegnosa, sofferente e caparbia che abitò le case scavate nelle rocce di tufo, in simbiosi con gli animali, dedita ai più svariati mestieri, oltre quello del lavoro nei campi, in anni lontani che affondano le radici nella metà del millecinquecento.”
ITINERARI
(da “OGGI 7” Magazine domenicale di “America Oggi” del 4 Settembre 2011)
Donato Cascione ci racconta il Museo-Laboratorio della Civiltà Contadina a Matera, gioiello prezioso per le tradizioni della Lucania
di Paola Milli
Una vita nei “Sassi”
I LUCANI hanno lasciato la loro patria più di ogni altro italiano, ve ne sono così tanti nel mondo, quanto, invece, scarsi sono coloro che abitano questi dirupi scoscesi, queste colline che scendono dolcemente alla piana costiera, questi monti aridi che lamentano l’assenza di vegetazione, elementi non estranei a un isolamento che a lungo inibì sviluppo e crescita in Basilicata, antica terra di conquista dei Romani. Ma quel che qui precedette gli esodi della popolazione oltre gli Oceani, è qualcosa che è ben più di tradizioni e modi di vivere di cui si ha traccia e se ne conserva la memoria, come in tutte le comunità solitamente avviene. È qualcosa di tangibile che conserva ancora l’odore, l’umore, il respiro, di pratiche di vita che hanno segnato il cammino di una civiltà, i suoi valori, i saperi concreti e immateriali contrapposti al potere, alla sua storia di dominio e di oppressione sociale, culturale, economica che separava governi e governati, sotto il cielo di quel che era allora l’Italia, prima che divenisse nazione: ducati e regni di nobili possidenti o del papato.
Vi è un luogo a Matera, città dei Sassi, dichiarata nel ’93 patrimonio dell’Umanità dall’Unesco, dove si ritrova intatto lo spirito che animò quell’umanità laboriosa e ingegnosa, sofferente e caparbia che abitò le case scavate nelle rocce di tufo, in simbiosi con gli animali, dedita ai più svariati mestieri, oltre quello del lavoro nei campi, in anni lontani che affondano le radici nella metà del millecinquecento. Questo luogo profano, ma di intensa sacralità, è il Museo-Laboratorio della Civiltà Contadina, nel Sasso Barisano, uno dei due anfiteatri naturali, l’altro è il Caveoso, su cui è adagiata la città, fra le più antiche al mondo, con al centro la Civita.
Donato Cascione, materano, figlio di un ebanista, nato nel ’49, è il fondatore del Museo, a cui ha dato vita quattordici anni fa, nell’intento didattico di ricostruire ambientazioni e strumenti, nonché mestieri, testimonianze dirette del vissuto di contadini, artigiani e braccianti, abitanti nelle grotte di tufo, affinché i giovani di oggi recepiscano il senso di quella civiltà perduta, di cui difficilmente qualcuno parlerà loro, e attraverso gli oggetti esposti, da lui recuperati con zelo e dedizione, quale etnologo e antropologo autodidatta e militante, riprendano il filo delle emozioni e dei contrasti che animarono il popolo dei Sassi.
La prima stanza che mi viene mostrata, vuole essere una provocazione, secondo le intenzioni, di colui che l’ha allestita, un ambiente clericale, testi sacri e crocifissi alle pareti, un letto che potrebbe essere quello di un sacerdote. Il clero ha soffocato le necessità del mondo contadino, come le hanno soffocate il potere temporale e la borghesia, si muovevano in questa triade i contadini, afferma Cascione, non è stato facile per loro uscire da questa morsa. La cultura che reprime, che soffoca, che sfrutta ulteriormente, è stata la strumento di cui si è servito il clero, ma anche la borghesia, i grandi latifondisti, proprietari di terre, e il potere temporale, il governo locale che nicchiava, per intimorire e soggiogare coloro che nulla possedevano, se non il timore di Dio e la superstizione che li dominava.
Quando e perché gli abitanti abbandonarono i Sassi?
«Fu un allontanamento coatto, disposto con la prima delle leggi speciali sui Sassi, voluta nel 1952 da Alcide de Gasperi, allora Presidente del Consiglio, è iniziato così il trasferimento di diciassettemila persone nei nuovi rioni della città moderna, costruiti sulla base di un piano regolatore organico, redatto dall’architetto Luigi Piccinato. Matera contava allora trentamila abitanti, metà della sua popolazione affrontò il trasferimento progressivo negli anni, dal ’53 al ’68.
Dovevano lasciare queste case, vivere nei nuovi alloggi, dovevano chiudere questa storia che era diventata lo scandalo, una vergogna nazionale, che creava nel perbenismo un certo disagio e sdegno, perché c’era un alto tasso di mortalità infantile, la gente moriva di stenti, umidità, non avevano la fognatura, non avevano l’acqua, vivevano ammucchiati come animali in un unico stanzone, condizioni, tut- tavia, ancora piuttosto diffuse nell’Italia del secondo dopoguerra.
Erano tutti consapevoli di questo inferno, persino la sorella di Carlo Levi era venuta qui, prima di recarsi dallo scrittore, confinato a Grassano. De Gasperi non aveva previsto, però, il grave strappo antropologico di cui furono vittime i contadini, sradicati nella nuove case, la loro identità messa a soqquadro. I loro figli non vedevano l’ora di fuggire dall’inferno dei Sassi, ma i nonni, i padri, sono stati male, la notte tornavano, rompevano le barriere, apposte dal Comune, per rimettersi di nuovo dentro le case, il governo fu rigido, irremovibile. Il fascismo, invece, fece le strade, provvide i rioni di punti per incanalare i liquami, ma non le case popolari, non si è mai preoccupato di questo, ha promesso e basta».
Chi erano gli abitanti dei Sassi?
«Il quaranta per cento erano artigiani, il dieci per cento braccianti e il resto contadini».
A quando risalgono i primi insediamenti nel Sasso materano?
«Subito dopo la caduta dell’Impero Romano, queste popolazioni si sono diffuse un po’ ovunque, qui da noi ci sono stati i Longobardi che si dedicavano all’artigianato e all’agricoltura, decidendo di cambiare rotta alla loro vita bellica, c’erano anche i serbocroati, gli albanesi, gli arabi, i monaci provenienti dall’Oriente, questi ultimi avevano un bel programma, realizzavano chiese rupestri, case, davano man forte alla popolazione già presente sul territorio».
La religiosità era vissuta dagli abitanti dei Sassi come suggestione, come timore?
«Entrambe le cose, basti pensare che prima dell’Editto napoleonico di Saint Cloud, emanato il dodici giugno 1804, i morti venivano seppelliti come meglio potevano, nei seminterrati delle chiese, in casa, sono stati dei grandi scavatori, hanno scavato nei posti in cui deporre i loro morti per convogliare acque piovane; la Chiesa acconsentiva a custodire i loro morti, se i parenti non avevano altro posto dove sistemarli, però pretendeva un compenso per questo, sfacciatamente chiedeva un piccolo vigneto, qualcosa, così si sarebbero dette tante messe e l’anima del defunto sarebbe stata salva».
Come erano strutturate le abitazioni nei Sassi?
«Ci sono quattro tipi di case: la Casa Grotta, completamente scavata nella roccia, che è sabbia fossile, non ha finestre, quindi l’aria e la luce entrano solo dalla porta, ciò era causa del rachitismo nei bambini; c’è poi la Casa con Grotta Annessa, significa che queste preesistenze sono state dilatate nel tempo, sono antichissime rispetto al corpo realizzato in un tempo successivo, nella grotta esistente sistemavano gli animali, in genere un mulo e solo una tenda separava gli animali dal nucleo familiare. Un altro tipo ancora è dato dalla Casa tutta in tufo, infine la Casa Palazziata, una casa che ha finestre, terrazze, molti punti luce, l’aria e il sole vi entrano diffusamente, era il sogno di tanti una Casa Palazziata! Ci abitava il contadino più ricco, il borghese, e i nobili avevano case anche a tre piani quaggiù».
Suo padre ha vissuto nei Sassi?
«No, ci ha vissuto mio nonno fino al 1936, con una famiglia molto numerosa, poi andò via spontaneamente per le difficili, non più sopportabili, condizioni di disagio».
Come è nato in Lei questo recupero delle tradizioni del passato?
«Molti miei compagni di scuola erano contadini, ero sempre lì con loro, nelle loro case, vedevo gli animali, sentivo le puzze, mi appassionavo sempre di più, andavamo in campagna e qualche volta partecipavo alla vendemmia, era un gioco per me, per loro era un lavoro, per quei contadinelli. Mi è esploso dentro, dopo tanti anni, questo desiderio di recuperare radici non mie, ma che sentivo mie».
Recuperare questa identità ha significato recuperare anche questo patrimonio di sofferenza?
«Sì, è la sofferenza che ha preparato il nostro futuro, grazie a loro abbiamo tanti valori che sono ancora in piedi».
Vedo incorniciata una recensione della prima edizione dei “Racconti del Museo” pubblicata sulla Gazzetta del Mezzogiorno nel 2003. Che cosa rappresenta questo volume che ha curato?
«Si tratta di testimonianze dirette raccolte da coloro che sono rimasti, gente che ha vissuto nei Sassi, che ha fratelli emigrati all’estero, a cui però il libro in molti casi è pervenuto, perché la memoria attraversa i continenti, non ha frontiere e i ricordi non li può cancellare nessuna legge, nessun decreto può sopprimerli».
Quali erano i luoghi e gli strumenti di socialità dentro le grotte di tufo?
«Il braciere, oltre che riscaldare, era un modo e un luogo di aggregazione , qui si riunivano in bambini nell’attesa che il padre tornasse dai campi, l’anziana raccontava la sua vita e quella dei suoi antenati, quindi mettevano nel braciere qualcosa, castagne, frutti di stagione, un pezzo di lardo, delle patate, perdevano tempo, asciugavano la biancheria, poi tornava l’uomo dai campi, il mulo lo tenevano fuori qualche minuto per farlo acclimatare, come dicevano loro, dopo la vecchietta lo portava in stalla, a volte c’era una scalinata ripida e il mulo scendeva molto lentamente, era questa l’occasione in cui ella sussurrava qualcosa all’orecchio del mulo, già così stanco che poteva succedere l’irreparabile, e lei con dolcezza lo chiamava per nome, tutti gli animali avevano un nome proprio di persona e facevano parte della famiglia. Quando il mulo moriva, i vicini davano le condoglianze perché la famiglia colpita aveva perso una ricchezza».
Perché questa vicinanza strettissima agli animali?
«L’uomo e il mulo una volta erano unica avventura umana, l’animale, parte della famiglia, veniva pianto e curato come uno di famiglia, erano legati da un vincolo a dir poco misterioso e fatale».
I mestieri esercitati nelle botteghe entro i Sassi come venivano concepiti?
«Solitamente tutti gli artigiani svolgevano più mestieri, il barbiere, per esempio, è stata una figura eclettica, sapeva fare tante cose, praticava salassi, cavava denti, i medici avevano un costo, curava la vestizione dei morti, a volte era anche lustrascarpe; il sellaio sapeva fare il sarto, il falegname, faceva anche il lattoniere, il calderaio, lavorava il rame e altri metalli all’occorrenza».
Come crede che venga percepito il suo lavoro?
«Io rappresento la città di Matera, non Donato Cascione, pur non essendo materano doc, mio padre era barese, è arrivato a Matera nel ’36, aveva diciotto anni, mio nonno era originario di Grumo, mia madre di origine veneta, ma ha trascorso l’infanzia qui. Noi con i nostri mezzi portiamo avanti un discorso culturale, piccole dispense, pubblicazioni, non mi importa se il sindaco non ci ha mai onorato della sua presenza, ho in mente una progettualità su più livelli, perché ci sono realtà che non ho ancora realizzato, riesumare dal passato altre figure artigianali, il fabbricatore di sedie, il creatore di funi, e poi avviare la scuola delle arti, per non dimenticare l’operato di chi ci ha preceduto e trasmetterlo ai ragazzi di oggi».