“Quel giorno in cui il governo fascista decise che tutti dovevano contribuire con oro, rame e ferro alla crescita dell’Italia, io compivo dieci anni.
I miei genitori avevano preso male la notizia.
– Con una mano prendono e con l’altra danno! – disse mio padre, riferendosi ai premi in denaro che elargivano alle famiglie numerose. La nostra era una vita di stenti, come quella di tanti altri, e di speranze risicate. Non era difficile che un bambino di pochi mesi morisse ed il premio fosse rinviato ad un’altra nascita.
Furono stabilite precise modalità per il prelievo dell’oro e dei metalli. Ogni inizio della settimana un incaricato, accompagnato da alcuni aiutanti, girava per le famiglie e verificava se in casa vi fossero più di tre pentole in rame o alluminio; il superfluo veniva ammucchiato su di un camioncino. Non erano esclusi cancelli, ringhiere, aratri in disuso e materiali ferrosi di vario genere.
La stessa sorte dovevano subire le fedi nuziali, ciondoli, spille e tutto ciò che era in oro; per questi monili preziosi, però, fu individuato un giorno di raccolta specifico per tutto il territorio nazionale. Naturalmente, all’atto della consegna, veniva rilasciata una ricevuta con tanto di firma e timbro del segretario del fascio.
Da noi si presentò proprio il 18 dicembre del 1935, giorno in cui tutti gli Italiani furono chiamati a donare l’oro alla Patria.
C’era tanta tristezza quel giorno. Dapprima prelevarono diverse pentole, comprese quelle in alluminio che usavamo in campagna per la raccolta dei pomodori; subito dopo si passò alle fedi nuziali che venivano cedute in cambio di anelli di ferro che recavano incisa la scritta “Oro alla Patria–18 nov. XIV”.
A mia madre luccicarono gli occhi quando vide mio padre sfilarsi dall’anulare la propria fede per consegnarla all’addetto, col capo basso. Nello stesso momento, rapidamente, sfilò dai lobi delle orecchie due piccolissimi orecchini e disse: – Questo è un mio piccolo anticipo per la patria: la fede mi è caduta nel pozzo perché mi andava un po’ larga –. Lo disse con tanta convinzione che noi tutti le credemmo subito; un po’ meno il segretario: la guardò con diffidenza e le annunciò che, appena possibile, avrebbe dato l’ordine di svuotare il pozzo.
Mia madre non si scompose affatto e, con dignità, assicurò che in occasione della consueta pulizia estiva della cisterna, avrebbe sicuramente ritrovato l’anello.
Ma ad agosto la cisterna non fu pulita.
Il segretario, che non aveva affatto dimenticato, si arrabbiò moltissimo e ritenne l’atteggiamento di mia madre un’offesa verso la patria passibile di punizione. Lei non si perse d’animo e, con estrema calma, cercò di porre rimedio a questa situazione di tensione.
Tra le cose del nonno, disperso nella Prima Guerra Mondiale, c’era, nascosto in una calza rattoppata, un piccolo anello di poco valore: lo prese e lo lasciò cadere nella mano del funzionario, dicendo – Ora non ho più debito, se debito bisogna chiamarlo –.
Il segretario, più rosso di un peperone, si tirò nervosamente la porta d’ingresso alle spalle. Un po’ di paura quel giorno la provammo, ma da allora non venne mai più nessuno ad esigere la fede.
Dell’anello non si parlò più anche negli anni successivi all’assegnazione delle case popolari di Serra Venerdì, che sanciva la fine di un incubo e anticipava un malessere diffuso e ancora più profondo.
Mio padre morì di tubercolosi a sessant’anni, quando mia madre ne aveva cinquantaquattro, io ventisette, mio fratello ventinove, le mie sorelle venti e ventiquattro.
Nei nuovi quartieri le sere trascorrevano nella tristezza, le strade non erano ben illuminate e c’erano ancora alcuni cantieri aperti che diffondevano un senso di disordine e di incompiutezza.
La gente, pur felice di aver abbandonato le case malsane e fatiscenti dei Sassi, era disorientata e qualcuno, incontrandoti, nemmeno salutava, non per mancanza di cortesia, ma quasi avesse paura di far emergere in una eventuale conversazione il timore che quel sogno di riscatto cominciasse a bucarsi come un pallone.
Nel 1966, dopo tredici anni dal trasferimento nella nuova abitazione, lasciammo la città e quella casa che ci aveva fatto stare bene all’inizio e tanto male dopo, dal momento che la povertà si era ripresentata anche in assenza di galline, mulo e maiale.
Non ci fu altra soluzione che cambiare mestiere e aggiungere al nostro dialetto la lingua americana.
Zia Maria, partita due anni prima di noi e già capace di esprimersi un po’ in inglese, si rese disponibile ad ospitarci e a guidarci nella nuova vita.
A novant’anni mia madre morì. Quando la vestimmo per seppellirla nel cimitero di Toronto, dalla federa del suo guanciale sbucò la sua fede nuziale che cominciò a rimbalzare sui pavimenti grigi, riflettendo una lieve luce dorata.
Tutti restammo a bocca aperta e ricordammo quell’episodio del passato: aveva mantenuto quel segreto per tanti anni, senza parlarne nemmeno con noi figli!”
Grazie Francesco per aver donato la fede nuziale di tua madre, d’accordo con i tuoi fratelli, a questo museo.
È qui, in una vetrina, sospesa con un nastro su altri monili d’epoca.
Emana un’alterigia quasi umana e riflette ancora una calda luce dorata.
(racconto di F.D., anni 94, tratto da “I racconti del Museo“)