Nel mondo contadino materano, come in tutte le società del passato, i maschi dominavano sulle femmine, in quanto considerate semplice ricettacolo del seme maschile.
Tale condizione si evidenziava già al momento della nascita: il figlio, nel quale il padre si identificava, veniva accolto con esultanza; la bambina era considerata un peso, paragonata ad una “cambiale”, sia perché non poteva lavorare come i maschi nei campi o altrove, sia perché la vigilanza sulla sua integrità morale avrebbe richiesto maggiore impegno. Il principio della sua netta inferiorità rispetto all’uomo aveva, infatti, come diretta conseguenza, un differente criterio di valutazione delle azioni dei rappresentanti dei due sessi, soprattutto nell’ambito morale.
Un peso, dunque, da sopportare fino al matrimonio, quando veniva affidata dal padre al marito-tutore, in uno scambio da uomo a uomo in cui la donna veniva considerata alla stregua di un oggetto, senza possibilità di scelta.
C’è da dire che la moglie, però, era il fulcro dell’economia e dell’equilibrio interni della famiglia della cui gestione era responsabile indiscussa; ma i suoi ruoli non si esaurivano in questo impegno: nei campi svolgeva lavori agricoli di minore portata, come la spigolatura, la vendemmia, la raccolta delle olive ; interveniva in mancanza di manodopera maschile; coltivava l’orto; allevava animali da cortile; si dedicava a piccole forme di commercio, come la vendita delle uova; occupava il tempo libero con lavori di filatura, rammendo, ricamo, maglieria, per sopperire ai bisogni implacabili della miseria; in caso di vedovanza o di assenza del marito, in guerra o emigrato, la sopravvivenza della famiglia dipendeva da lei.
L’impiego in lavori nei campi che non richiedevano competenze specifiche faceva sì che la donna sviluppasse grandi capacità di versatilità ed adattabilità nei ruoli più diversificati.
Le attività esterne all’ambito domestico venivano svolte di sera, nel vicinato, spazio aperto e comune in cui la donna poteva uscire dall’isolamento della propria abitazione e relazionarsi con le vicine con le quali stabiliva un rapporto di mutuo soccorso nel lavoro, nelle esigenze della vita quotidiana e in situazioni particolarmente impegnative, come le malattie, il parto, i lutti. C’è da dire che la stessa comunità esercitava un feroce controllo sociale su tutte le sue componenti e i nuclei familiari di cui facevano parte: dal giudizio dei vicini dipendevano l’onore e il rispetto, mentre il disprezzo e i pettegolezzi alimentavano, molto spesso, tensioni insostenibili che sfociavano in litigi e situazioni di isolamento sociale, per fortuna sempre reversibili.
Dunque l’esistenza maschile e femminile erano contrassegnate anche da una netta separazione degli spazi di lavoro e di svago: l’uomo, nel tempo libero, poteva uscire, incontrare gli amici in piazza o, più frequentemente, nelle cantine pubbliche, in luoghi alternativi al vicinato.
Diversa era la situazione delle mogli dei piccoli e medi proprietari che si occupavano sì della gestione della casa, ma lasciavano le incombenze più faticose ed umili a chi occupava i gradini più bassi della scala sociale. Stranamente il benessere rafforzava l’immagine maschile all’interno della famiglia e allontanava la donna da qualsiasi impegno economico e produttivo: ciò la rendeva completamente dipendente dal padre, dal marito, da un fratello o cognato, nel caso fosse rimasta nubile.
Questo spostamento di asse all’interno delle famiglie si evince da numerose foto d’epoca, in cui la donna a volte siede al centro con il marito, altre volte è in piedi alle sue spalle, a seconda del peso della sua funzione nell’economia e nell’equilibrio familiari. Il primo caso è tipico delle famiglie contadine, il secondo di quelle borghesi.
Il processo di emancipazione della donna è stato, negli anni, connotato da grande cautela: il timore di compromettere le proprie possibiltà di matrimonio o di nuocere alla reputazione della famiglia di appartenenza hanno frenato atteggiamenti arditi e rivoluzionari, per cui si è preferito attendere che la comunità di origine accettasse situazioni e comportamenti innovativi, prima di abbandonare le vecchie consuetudini di sudditanza all’uomo e di preclusione sociale e culturale.
Oggi qui, come ovunque, la donna è libera di scegliere il proprio destino e di intraprendere qualsiasi percorso professionale: sono gli uomini, per fortuna non tutti, che non riescono a liberarsi dell’ossessione del predominio sulle donne; sono i governi che non intervengono con decisione in situazioni di discriminazione e sfruttamento sul posto di lavoro. “Caporalato” e “femminicidio” sono termini che ricorrono quotidianamente nei fatti di cronaca, a ricordarci che c’è un percorso di giustizia sociale da completare, a risarcimento di umiliazioni e sofferenze secolari inferte ad una donna amata, odiata, respinta, cercata, sfruttata, sottomessa, mortificata e, forse o soprattutto, temuta.