Le donne partigiane sono sempre state rappresentate circondate da un alone positivo, miscuglio di coraggio e romanticismo.
Per definire le brigantesse, invece, nei verbali redatti dai militari che le catturavano, si usavano termini dispregiativi: druda… ganza… prostituta, insomma.
Oggetto di violenze e soprusi da parte dei galantuomini, che le consideravano parte integrante dei propri possedimenti, erano segnate a vita dalla miseria; quando un maschio della famiglia diventava brigante, subivano pressioni e vessazioni insopportabili da parte dei soldati piemontesi che, nei casi migliori, le sottoponevano ad arresti prolungati ed interrogatori continui.
Era preferibile, perciò, affrontare la clandestinità e il pericolo delle armi; rischiare la vita per dare libero sfogo a rabbia e frustrazione; sperare, perchè no, in una vita meno miserabile.
Non sempre furono solo sorelle, figlie, mogli, amanti di briganti: a volte furono capobanda autonome, all’altezza del ruolo svolto, dotate di coraggio, intraprendenza e, spesso, inaspettata ferocia.
Molte di esse, una volta catturate, furono violentate e uccise con altrettanta crudeltà; i loro corpi straziati e denudati furono fotografati e lasciati esposti nelle piazze, come macabri trofei.