I briganti: eroi o delinquenti? Difficile dirlo, probabilmente nè gli uni e nè gli altri.
Fenomeno complesso, in realtà, il brigantaggio postunitario, definito nei libri di storia come un problema di delinquenza comune per tanti decenni, inquadrato nella cornice dell’annosa “questione meridionale”, spina nel fianco di un nuovo Stato, nato sotto la spinta di fortissimi interessi politici ed economici, più che da ideali patriottici estranei alla maggior parte della popolazione.
Ma la Relazione della Commissione d’Inchiesta, nominata dal primo Parlamento Italiano affinchè indagasse sulle sue cause, ne indicava chiaramente le motivazioni nella grave situazione di ingiustizia sociale che connotava il Sud del Paese.
Il governo ne prese atto e provvide a inviare l’esercito, per reprimerlo ferocemente.
Variegata era la composizione delle bande dei ribelli: una minoranza di intellettuali liberali; fuorusciti dell’esercito borbonico; sostenitori della Chiesa (preoccupata che il suo Stato fosse fagocitato da quello sabaudo, come avvenne in seguito); una massa di contadini disperati, non ideologizzati, traditi dai nuovi governanti che non solo non avevano mantenuto la promessa di quotizzare le terre demaniali di cui si erano anche impossessati i latifondisti (i galantuomini), ma avevano anche istituito la leva obbligatoria che durava sei anni; moltissimi renitenti alla leva, quindi, giovanissimi, che, per sopravvivere nelle zone impervie di montagna, si aggregavano a bande preesistenti.
Più facile è definire i galantuomini: ricchi proprietari terrieri, quasi mai di origine nobile, avidi arrampicatori sociali, abili trasformisti, pronti a passare da un potentato all’altro, pur di conservare intatti proprietà e privilegi; padroni arroganti e senza scrupoli che, a volte, strumentalizzarono gli stessi briganti, pur di raggiungere i propri obiettivi.